Mangiare poco allunga la vita?

Partiamo da un quesito centrale, rispetto al motivo (o ai motivi) per cui l’assunzione di cibo è una condizione necessaria per la nostra specie. In altre parole: qual è la ragione fondamentale per cui ci nutriamo? Innanzitutto l’essere umano mangia per permettere al proprio organismo di crescere, in modo da progredire e passare dallo stadio infantile a quello adulto: mangiamo per permettere al nostro organismo di svilupparsi. In secondo luogo, ci nutriamo perché è tramite l’alimentazione che l’essere umano è in grado di conservare la propria condizione vitale. Attraverso il cibo assunto siamo in grado di guadagnare l’apporto calorico di cui abbiamo bisogno per mantenere la temperatura corporea a un livello ottimale, che nel caso dell’essere umano è di 37°. Nel momento in cui dovesse venire a mancare il nutrimento dato dall’alimentazione, è dai depositi di grasso immagazzinati in precedenza che il nostro organismo preleva le calorie necessarie. La condizione salutare migliore consiste dunque nel mantenere questo equilibrio in entrata e in uscita.
Fin dall’antichità, quando si cibava di ciò che raccoglieva, o perfino una volta divenuto cacciatore, in seguito alle glaciazioni che hanno limitato la possibilità di trovare vegetazione commestibile, l’uomo si è sempre alimentato alla luce del sole. Ci si nutriva generalmente con ciò che si riusciva a procurarsi durante le ore di luce, dopodichè si andava a dormire. La rivoluzione industriale, con l’avvento della corrente elettrica, ha totalmente modificato quest’abitudine. In seguito è diventato normale poter mangiare in qualsiasi momento della giornata, anche in più momenti. Si mangia fino a tardi. Qualcuno addirittura si alza di notte per farlo; tuttavia numerosi studi si sono chiesti ‘per quanti pasti è concepito l’essere umano?’, qual è il numero di pasti maggiormente idoneo al suo metabolismo?
Un dato da cui partire è, come sempre, il nostro organismo. Possediamo organi come il fegato che sono in grado di conservare l’energia in modo da renderla poi disponibile nel momento del bisogno. Le riserve di zucchero, infatti, si accumulano nel fegato sotto forma di glicogeno, benché tuttavia tendano a esaurirsi dopo 10-12 ore di digiuno. Ciò fa sì che vengano richiamati acidi grassi dal tessuto adiposo, i quali sono trasformati dal fegato in chetoni in grado di rientrare nel flusso sanguigno sotto forma di fonte energetica per i muscoli e il cervello. Da sempre il digiuno è accostato a diverse religioni che lo prevedono, in forme, contesti e modalità differenti, e che ne fanno una pratica a cui attenersi in quanto legato alla dimensione del ‘sacro’. Si pensi al digiuno di figure bibliche nell’Antico Testamento o a quello di Gesù descritto nei Vangeli, per non parlare del mese sacro del Ramadan, in cui ci si astiene dal cibo durante le ore di luce. Oltre a questi aspetti religiosi e culturali, al giorno d’oggi gli esperti hanno rilevato che il nostro organismo è in grado di adottare specifiche precauzioni per ovviare allo stress causato dallo stare senza cibo per alcune ore. Oltre a ridurre le infiammazioni, tutelare determinati tessuti del nostro organismo, digiunare tra le 10 e le 16 ore permette di migliorare la nostra risposta immunitaria e favorisce la capacità delle cellule di eliminare le sostanze di scarto. Ma non solo. Sembra poter sussistere una diretta correlazione tra l’astinenza dal cibo e il rallentamento della crescita di alcune forme tumorali.
Oltre al digiuno e alla privazione di cibo per alcune ore, un ulteriore accorgimento nel nostro regime alimentare riguarda la quantità di cibo e la frequenza con cui lo assumiamo. Un’altra modalità di alimentazione testata nel corso degli ultimi anni, e che sta prendendo via via piede, e la cosiddetta ‘alimentazione frazionata’. In favore di una generale restrizione alimentare, che tuttavia non implichi la malnutrizione, è un buon accorgimento cercare di aumentare il numero dei momenti in cui si mangia durante la giornata, diminuendo però la quantità di cibo ingerita, cercando di non superare le 100 calorie per pasto. E’ il cosiddetto approccio del ‘mangiare poco ma spesso’. Ciò non vuol dire smettere di mangiare, bensì assumere il giusto quantitativo di cibo, sebbene distribuito in più momenti differenti. Tale metodo favorisce il dimagrimento, in quanto consente di mantenere costantemente attivo il metabolismo. Questo avviene sia perché ogni pasto richiede una fase di digestione, e un notevole dispendio energetico ad essa correlata, sia perché frazionando i pasti si mantiene costante la secrezione di insulina. Proprio quest’ultima, durante i cosiddetti ‘picchi glicemici’, è tra le maggiori responsabili dell’accumulo di grasso su pancia e fianchi.
Un’alimentazione frazionata permette pertanto di evitare picchi di acidi grassi, il cui accumulo è direttamente connesso all’aumento del colesterolo. Di conseguenza si può trarre un notevole beneficio anche dal punto di vista della circolazione, nonché dell’apparato intestinale, meno sovraccaricato durante il corso delle sue funzioni.
Come visto fino a qui, che si scelga di saltare qualche pasto ogni tanto o che si decida di adottare un’alimentazione frazionata, i benefici che ne risultano sono notevoli e riguardano diversi aspetti del nostro organismo. Ulteriori benefici sono stati rilevati per quanto riguarda altri organi fondamentali come il cuore e il cervello. Da decenni sono in atto studi su alcune specie animali con una dieta ridotta del 30-40 %, e nei primati si è registrato un calo del 50 % sia degli infarti che dei tumori. Per i quali vale la stessa regola relativa ai disturbi cardiovascolari legati al sovrappeso: il rischio di tumore è direttamente proporzionale alla quantità di cibo che si assume, il che vuol dire più cibo, più rischi. Per quanto riguarda invece il cervello, si è osservato che una dieta ipocalorica permette di attivare una specifica molecola, chiamata CREB1, che è in grado di accendere altri geni responsabili della sua longevità e del suo corretto funzionamento. Inoltre, è sufficiente la privazione di cibo per 24 ore affinché all’interno del nostro cervello siano in grado di formarsi nuovi neuroni.
L’obiettivo di alcune ricerche del panorama contemporaneo è quello di permettere alle persone di arrivare sani al traguardo dei cent’anni. Dal momento che già oggi il 20 % degli ultracentenari non hanno sviluppato alcuna malattia prima di raggiungere il secolo di vita, l’obiettivo è permettere alla maggior parte della popolazione di riuscire a ‘scampare’ alla vecchiaia. Li definiscono, letteralmente, gli escaper, i sopravvissuti; cioè coloro che sono scampati agli anni della vecchiaia in cui malattie vascolari, tumori e patologie degenerative legate alla senilità mietono numerose vittime. Forse proprio a partire da un’alimentazione concepita in modo diverso, frazionata, accorta e ipocalorica, questo traguardo potrebbe diventare realtà in un futuro prossimo.

di GIOSUE’ BRULLA
giosuè.brulla@gmail.com

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